martedì, marzo 09, 2010

La natura selvaggia dei sentimenti

"Nel Paese delle Creature Selvagge"
(or. "Where the Wild Things Are")
Regia di Spike Jonze, USA, 2009.


Max (Max Records) è un ragazzino in età preadolescenziale animato da una più che spiccata fantasia, da una esplosiva energia vitale e da un'altrettanto incontrollabile necessità di attenzioni. Un giorno, dopo l'ennesima incomprensione con la madre e la sorella, fugge di casa e finisce in una lontana foresta popolata da misteriose creature fantastiche tanto goffe quanto devastanti.

Pubblicato per la prima volta nel 1963, “Where the Wild Things Are” è un classico della letteratura per ragazzi scritto ed illustrato da Maurice Sendak. Un’opera molto conosciuta ed apprezzata negli USA, al punto di essere stata più volte realizzata in forma di cortometraggio animato con tecniche classiche o digitali. Qui, però, vede per la prima volta la luce nella veste di lungometraggio.

Dopo parecchi tentativi di produzione (alcuni dei quali, addirittura, firmati Disney), la storia raggiunge il grande schermo per mano di Spike Jonze, uno dei registi più innovativi, originali ed imprevedibili della “nuova Hollywood”. L’impronta del regista non è affatto secondaria, tanto per motivi produttivi (sembra che l’iniziale interessamento della Universal sia venuto meno proprio a causa di divergenze con lo stesso Jonze) quanto per motivi prettamente stilistici.

Videomaker dinamico, formatosi realizzando video di skate e videoclip musicali e poi cresciuto cinematograficamente a fianco del visionario sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich e Il Ladro di Orchidee), Spike Jonze ha voluto escludere da subito una versione totalmente animata ed ha optato per un film “dal vero”, affidando la realizzazione delle “creature” al Jim Henson Workshop (The Muppet Show e Labyrinth, tanto per dirne un paio) e limitando la computer grafica ad alcuni apporti in postproduzione, per donare un’impressione di maggiore concretezza corporea all’intero film.

Sul piano della narrazione, la sceneggiatura è molto molto semplice, la rappresentazione, tuttavia, è alquanto complessa e viscerale. Non ci troviamo di fronte ad un “semplice” film per ragazzi. La rappresentazione delle pulsioni del giovane Max sono, anzi, rappresentate in maniera molto sottile e sfumata, al limite dell’introspettivo, e la sua interazione con le “creature selvagge” ci dice dell’uomo moderno molto di più di qualsiasi manuale sui rapporti interpersonali. I momenti più rarefatti si alternano a vere e proprie deflagrazioni di energia vitale e l’andamento ondivago della narrazione rispecchia pienamente l’alternarsi repentino degli stati d’animo di Max, sempre in bilico tra la voglia di dar libero sfogo agli istinti e la ricerca di un sentimento sincero. Non a caso, la stessa casa di produzione, visto il risultato, ha rinunciato ad una promozione mirata ad un target giovanile ed ha finito col pubblicizzare il film come prodotto per un pubblico adulto.

La natura sfuggente e multiforme di questa pellicola mi dice già che i suoi estimatori non saranno in tanti, eppure mi sento di dire che sia un film mirabile, dolce, forte, energico e pregno di significati profondi anche lì dove sembra più superficiale.

Di certo non un film per tutti.

Consigliato agli amanti dei pupazzoni della “vecchia scuola” ed a tutti quelli che sanno vedere, oltre l’apparente spensieratezza dei ragazzini, quegli innati moti del cuore che si portano appresso anche da grandi…


Buona visione!






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mercoledì, marzo 03, 2010

Polvere di stella

"JCVD - Nessuna giustizia"
Regia di Mabrouk El Mechri, Belgio/Lussemburgo/Francia, 2008.

In un periodo particolarmente buio della propria vita e carriera, Jean-Claude Van Damme (nella parte di se stesso) torna nel proprio paese natale in Belgio, ma, entrando in un ufficio postale per una normale operazione di routine, viene coinvolto in una rapina in atto. Il confronto tra il coraggioso eroe-karateca dell'immaginario cinematografico e l'uomo "reale" con le sue debolezze e vulnerabilità sarà inevitabile.

A quasi cinquant'anni e con diverse fasi di altalenante successo alle spalle, Van Damme qui si mette in gioco accettando di prendersi in giro e svelare glorie e miserie della propria carriera in un film che, partendo dal classico schema dell'hostage movie, mescola realtà e finzione in maniera paradossale ed arguta.

Tra Quel pomeriggio di un giorno da cani ed Essere John Malkovich, questa pellicola prende dal primo una prosa filmica asciutta ed efficace e dal secondo il gioco intellettuale del metafilmico. Il tono generale del film, però, è quasi sempre di un grottesco ironico ed intelligente, gioca con gli stilemi classici del film-rapina arricchendosi di finezze registiche che alludono a certi grandi classici, ma senza prendersi mai troppo sul serio, mentre la fotografia pallida e desaturata sembra sottolineare le tracce del tempo (e della quotidianità) sul corpo ormai segnato dell'attore-atleta e i diversi dialoghi improvvisati non fanno che sottolineare questi giochi di senso. Direi che, in questo caso, l'impronta europea riesca a dare alla pellicola quel tocco di sapido in più.

Al contrario di altre recensioni che ho letto, però, ho reputato del tutto pleonastico ed evitabilissimo il famoso monologo-confessione di sei minuti voluto dallo sceneggiatore-regista ed improvvisato da Van Damme attingendo al proprio vissuto di star dagli altalenanti successi. Si potrebbe dire che basterebbero le inquadrature, i silenzi ed il confronto con gli altri personaggi (uno per tutti, il dialogo in taxi tra l'attore e l'autista) a dire molto di più di qualsiasi "mea culpa" e che lo spiattellamento delle proprie miserie non possa che risultare soltanto triste e patetico, quasi quanto denudare i propri sentimenti nel "confessionale" di un reality/celebrity show.

In sostanza, un film divertente, intrigante ed anche significativo, metafilmico ma senza eccessi cervellotici. Perfettamente sintetizzato nella metafora della contrapposizione tra l'ufficio postale sotto assedio e la videoteca di fronte.


Buona visione!



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A Bologna - Uno specchio

Non mi rivedo più, adesso, nel volto di questa città.
Non saprei dire quando, ma potrei dire, di certo, di averne avuto, un tempo, l'illusione.
Ed era forse l'illusione di ciò che non sapevo o forse solo la lente di un'altra età.
Era, mi pare, il tempo dei significati altri e della ricerca di un senso delle cose.

Non mi rivedo più, ormai, nel volto di questa città.
Sarà perché, intanto, mi ero un po' rinchiuso nella cieca abitudine ripetitiva.
Sarà che ero solo e ciò mi stava bene o forse non vedevo quel poco più in là.
Pensavo, allora, che avrei colto tutto quanto, non appena avessi avuto una giusta visione.

Non mi rivedo più, adesso, nel volto di questa città.
Ma potrei dire, a senso, di aver capito almeno qual è il motivo.
Sarà che sono un uomo, che tanto ha guardato e, spesso, senza mai vedere.
Ed oggi, mi sembra, che il velo sia caduto e invece della finestra trovo solo uno specchio.



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martedì, marzo 02, 2010

L'Uomo visto dalla Luna

"Moon"
Regia di Duncan Jones, GB, 2009.

Sam Bell (Sam Rockwell) è l'unico tecnico e abitante di una stazione mineraria sulla luna, la cui sola compagnia è costituita dal computer parlante GERTY (nella versione originale doppiato da Kevin Spacey). Giunto al termine dei suoi tre anni di contratto, Sam patisce sempre più il peso di un isolamento così prolungato e della lontananza dai suoi familiari. Un incidente dovuto alla stanchezza, però, lo obbligherà a confrontarsi con se stesso e con alcune amare verità.

Un po' "2001: Odissea nello spazio", un po' "Solaris", un po' "Alien", un po' "Atmosfera Zero", questo bell'esempio di fantascienza indipendente, più che scimmiottare, omaggia degnamente i classici della "fantascienza umanistica" e, a livello visivo, rinuncia alla scelta facile degli effetti digitali per ricorrere alla tecnica dei modellini.

Semplice, ma ben girato. Tagliato e cucito (ovvero scritto) su misura per Sam Rockwell, perfettamente a proprio agio nella parte dello stralunato (perdonatemi il gioco di parole) al limite della follia.

Uno di quegli esempi di fantascienza che parlano dell'Uomo e non puntano sull'appeal dell'effetto speciale baluginante.
È incredibile come il ristretto spazio scenico della base mineraria della Lunar riesca ad essere più significativo di qualsiasi mirabolante ripresa aerea sulla iperdettagliata fauna del cameroniano pianeta Pandora!...

Vivamente consigliato agli amanti dei racconti di Asimov, Bradbury e Sheckley, ai nostalgici della fantascienza cinematografica di fine anni '70/primi '80 ed a tutti quelli che hanno sognato su certe belle storie a fumetti con gli astronauti solitari nel nulla dello spazio...



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lunedì, marzo 01, 2010

Niente di personale...

"Interview"
Regia di Steve Buscemi, USA, 2007.

...confronto di personalità "irregolari" ed un po' autodistruttive nell'intervista/scontro tra un disilluso giornalista politico (Steve Buscemi) ed una capricciosa starlette sulla cresta dell'onda (Sienna Miller).

Il film è il remake dell'omonimo film del 2003 del defunto regista olandese Theo Van Gogh.

Non conosco la versione originale di questa pellicola, la versione di Buscemi, però, l'ho trovata interessante nelle intenzioni, ma poco riuscita all'atto pratico.

Film esclusivamente "attoriale", presto disperde l'interesse nei ripetuti tentennamenti dei personaggi e nella loro condotta "ondivaga".
Peccato, perché il finale è bello... forse avrebbe potuto reggere meglio dei tempi da corto o, al massimo, da mediometraggio.

Da quanto ho sentito, è il primo film di una prevista trilogia di remake americani dall'opera del regista olandese.

Consigliato solo ai fan di Buscemi ed agli inguaribili patiti del Cinema indipendente.


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