lunedì, gennaio 25, 2010

La vera natura della città

La città tutta per lui


La popolazione per undici mesi all’anno amava la città che guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panoramico, tutti motivi indiscutibili di continua attrattiva. L’unico abitante cui non si poteva attribuire questo sentimento con certezza era Marcovaldo; ma quel che pensava lui – primo – era difficile saperlo data la sua scarsa comunicativa, e – secondo – contava così poco che comunque era lo stesso.
A un certo punto dell’anno, cominciava il mese d’agosto. Ed ecco: s’assisteva a un cambiamento di sentimenti generale. Alla città non voleva bene più nessuno: gli stessi grattacieli e sottopassaggi pedonali e autoparcheggi fino a ieri tanto amati erano diventati antipatici e irritanti. La popolazione non desiderava altro che andarsene al più presto: e così a furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno. Marcovaldo era l’unico abitante a non lasciare la città.
Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera.
Certo, la mancanza di qualcosa saltava agli occhi: ma non della fila di macchine parcheggiate, o dell’ingorgo ai crocevia, o del flusso di folla sulla porta del grande magazzino, o dell’isolotto di gente ferma in attesa del tram; ciò che mancava per colmare gli spazi vuoti e incurvare le superfici squadrate, era magari un alluvione per lo scoppio delle condutture dell’acqua, o un’invasione di radici degli alberi del viale che spaccassero la pavimentazione. Lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l’affiorare di una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città di vernice e catrame e vetro e intonaco. Ed ecco che il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa; la staccionata d’un cantiere era d’assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull’insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline di tarme, addormentate.
Si sarebbe detto che, appena disertata dagli uomini, la città fosse caduta in balia d’abitatori fino a ieri nascosti, che ora prendevano il sopravvento: la passeggiata di Marcovaldo seguiva per un poco l’itinerario d’una fila di formiche, poi si lasciava sviare dal volo d’uno scarabeo smarrito, poi indugiava accompagnando il sinuoso incedere d’un lombrico. Non erano solo gli animali a invadere il campo: Marcovaldo scopriva che alle edicole dei giornali, sul lato nord, si forma un sottile strato di muffa, che gli alberelli in vaso davanti ai ristoranti si sforzano di spingere le loro foglie fuori dalla cornice d’ombra del marciapiede. Ma esisteva ancora la città? Quell’agglomerato di materie sintetiche che rinserrava le giornate di Marcovaldo, ora si rivelava un mosaico di pietre disparate, ognuna ben distinta dalle altre alla vista e al contatto, per durezza e calore e consistenza.
Così, dimenticando la funzione dei marciapiedi e delle strisce bianche, Marcovaldo percorreva le vie con zigzag da farfalla, quand’ecco che il radiatore d’una “spider” lanciata a cento all’ora gli arrivò a un millimetro da un’anca. Marcovaldo balzò su e ricadde tramortito.
La macchina, con un gran gnaulìo, frenò girando quasi su se stessa. Ne saltò fuori un gruppo di giovanotti scamiciati. “Qui mi prendono a botte, - pensò Marcovaldo, - perché camminavo in mezzo alla via!”
I giovanotti erano armati di strani arnesi. – Finalmente l’abbiamo trovato! Finalmente! – dicevano, circondando Marcovaldo. – Ecco dunque, - disse uno di loro reggendo un bastoncino color d’argento vicino alla bocca, - l’unico abitante rimasto in città il giorno di ferragosto. Mi scusi, signore, vuol dire le sue impressioni ai telespettatori? – e gli cacciò il bastoncino argentato sotto il naso.
Era scoppiato un bagliore accecante, faceva caldo come in un forno, e Marcovaldo stava per svenire. Gli avevano puntato contro riflettori, “telecamere”, microfoni. Balbettò qualcosa: a ogni tre sillabe che lui diceva, sopravveniva quel giovanotto, torcendo il microfono verso di sé: - Ah, dunque, le vuol dire… - e attaccava a parlare per dieci minuti.
Insomma, gli fecero l’intervista.
- E adesso, posso andare?
- Ma sì, certo, la ringraziamo moltissimo… Anzi, se lei non avesse altro da fare… e se avesse voglia di guadagnare qualche biglietto da mille… non le dispiacerebbe restare qui a darci una mano?
Tutta la piazza era sottosopra: furgoni, carri attrezzi, macchine da presa col carrello, accumulatori, impianti di lampade, squadre di uomini in tuta che ciondolavano da una parte all’altra tutti sudati.
- Eccola, è arrivata! È arrivata! – Da una fuoriserie scoperta, scese una stella del cinema.
- Sotto, ragazzi, possiamo cominciare la ripresa della fontana!
Il regista del “teleservizio” Follie di Ferragosto cominciò a dar ordini per riprendere il tuffo della famosa diva nella principale fontana cittadina.
Al manovale Marcovaldo avevano dato da spostare per la piazza un padellone di riflettore dal pesante piedestallo. La gran piazza ora ronzava di macchinari e sfrigolii di lampade, risuonava di colpi di martello sulle improvvisate impalcature metalliche e d’ordini urlati…
Agli occhi di Marcovaldo, accecato e stordito, la città di tutti i giorni aveva ripreso il posto di quell’altra intravista solo per un momento, o forse solamente sognata.

Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, 1963.


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domenica, gennaio 10, 2010

I figli della fame

Una moltitudine di donne, uomini e bambini sta divorando una balena ancora viva. Morti di fame, affondano i denti. I più disperati riescono a strappare lembi scuri di pelle, e ridono con il grasso che gli cola giù dal mento. Un uomo a torso nudo, con un’ascia, ha squarciato il ventre della balena. Con furia scava una nicchia e avanza verso l’interno della bestia. L’intruso è travolto dalla fuoriuscita delle viscere calde e ributtato sulla sabbia. Uno sciame di ragazzi si getta sugli intestini fumanti e si azzuffa per ogni gramo boccone.
Le comari riempiono i grembiuli, gli uomini le camicie. Molti si portano immediatamente alla bocca le interiora conquistate, e mangiano con rivoltante ingordigia.
Una balena si è arenata sulla spiaggia alla foce del fiume pigro che attraversa Genova e subito s’è sparsa la voce.
Verso la testa dell’enorme mammifero, un ragazzo è riuscito, con la lama lunga di un coltello, a tagliare una striscia di carne grande quanto lui. Mette il bottino tra collo e spalla, e corre per cercare di portarlo in salvo. Il pezzo di balena gli sculaccia il sedere a ogni passo.
L’animale muove appena la coda. Osserva stupito, seguendo l’attività di quegli strani pesci che scappano via isterici con le sue membra.
Uno sciancato raggiunge il foro sulla testa della bestia e, curioso, ci guarda dentro. Per dispetto, la balena sputa fuori un fiotto d’acqua di mare mista a sangue. È l’ultimo gioco della sua vita. Si lascia andare con un sospiro e muore adagiandosi mollemente sulla spiaggia.
Tre persone rimangono schiacciate dal cedimento della balena.
Nessuno li soccorre. Ognuno è impegnato a salvare se stesso, o la famiglia, dalla fame. Tre suore con le vesti lorde degli umori della balena esortano, a spintoni, una fila ordinata di orfanelli a far man bassa di ciò che trovano. È manna santa che viene dal cielo. O dal mare. Da lontano, si confondono.
Un cieco sbraita e mena il bastone per l’aria a pochi passi dalla balena cui dà le spalle. Impreca perché non riesce a orientarsi. Neppure la fame lo aiuta.
Un gruppo della consorteria dei manovali fa passamano, al modo dei mattoni, con grumi di carne impilati su un carretto trainato da un cavallo secco come un remo al sole.
La bestia da soma gira il collo cercando qualche pezzo di pelle da addentare. Quando ci arriva, una frustata gli fa capire che non è il caso, e allora si accontenta di leccare il liquido giallastro che cola incessante sulla sabbia accanto agli zoccoli.
La carestia strazia Genova da troppi anni.
Molti sono convinti che tutto cambierà con l’avvento dell’anno nuovo, il 1590.
Dall’ombra dei primi alberi sul mare, Pimain osserva l’apocalittica scena. È un uomo dalla pelle ambrata, nel pieno degli anni vigorosi.
Ha il busto muscoloso e solido. Non così le gambe, che sono magre, corte, e si staccano da un culo piccolo da bertuccia. Sembrano parti di corpo di persone differenti. Vedendolo alla finestra, dalla cintola in su, nessuno potrebbe immaginare che il resto sia tanto risicato.
Capelli neri mossi e basette gli incorniciano il bel volto. Ha sguardo deciso, gesti sicuri, denti bianchi e un sorriso da farabutto.
Vestito in modo modesto, non tradisce appartenenza di classe. Piace alle donne ma non lo sa.
Fa un lavoro diverso da tutti, che a molti puzza di stregoneria.
Pimain abbassa la mano che tendeva la falda del cappello di saggina per ripararsi dall’ultimo sole. Sistema la bisaccia che gli segna la spalla e chiama il cane battendo il palmo sulla coscia. L’animale, di media grandezza, abbaia a rimbrotti sordi e arriva a strusciare il pelo rosso sui polpacci del padrone.
L’uomo e il cane riprendono il sentiero verso le alture.
Già ai primi passi, una moltitudine di miserabili sbarra loro il cammino, e li urta correndo nella direzione opposta.
La fame ha tanti figli, e alla tavola della balena non si aspetta.

Lorenzo Beccati, Il guaritore di maiali - Anno Domini 1589, 2006.


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